Una novità assoluta in lingua siciliana è l’atto unico “Se’ nùmmari” di Salvatore Rizzo, giornalista e drammaturgo palermitano, che torna a scrivere per il palcoscenico dopo l’affermazione nazionale riportata con “Le mille bolle blu”. Il nuovo allestimento è stato prodotto dal Teatro Stabile di Catania che ha impegnato un cast di altissima qualità. Vincenzo Pirrotta ha firmato regia, scene, costumi, Giacomo Cuticchio le musiche, Franco Buzzanca le luci; in scena agiscono Filippo Luna e Valeria Contadino. Vivere per anni una tragedia quotidiana, e un giorno per caso imbroccare i sei numeri: sì, quelli del Superenalotto. Ed è il bivio per Orazio e Anna, a un passo da un paradiso terreno che finora la sorte ha loro negato, scaraventandoli per anni in un inferno quotidiano alle cui pene si sono sottoposti tra amore e rassegnazione, dovere e strazio, dolore e abnegazione.
Il tragico plot ha coinvolto il pubblico nelle spire di un lancinante, abissale impatto emotivo. Lo stesso che sconvolge la coppia di Orazio e Anna, trasformando due angeli in carnefici. La vincita colossale innesta un cortocircuito: marito e moglie si lasciano pervadere dalla tentazione di una possibile felicità che ha però un prezzo altissimo, quello di un sacrificio orrendo, del più efferato tra i crimini. Eppure quel demone, per un breve ma definitivo momento, si impossessa della loro mente e del loro cuore, li ammorba fino ad intossicarli, confondendo diritto e ragione, egoismo e pietà. Si imbattono in un inferno ancora più insopportabile, Orazio e Anna, quello di una coscienza e di un sentimento che, tornati vigili, osservano il baratro in cui sono sprofondati senza alcuna speranza di uscirne.
«Confessare dove, in che tempo, perché li ho pensati – ha spiegato Salvatore Rizzo -, Orazio e Anna, sarebbe un colpo sotto la cintura per Vincenzo, Filippo e Valeria, grazie ai quali questa storia lascia i fogli di un copione e si trasfigura in anime e corpi di palcoscenico. Quasi un torto. Che non penso affatto di fargli, grato come devo esser loro per farmeli “vivere”, questi miei figli di carta che da un po’ di tempo sono soprattutto loro figli. In che tempo, al massimo. Un oggi che può essere l’altro ieri o dopodomani. Un oggi qualunque. Ma anche – visto il rito sacrificale di cui Orazio e Anna sono spietati sacerdoti – l’indefinito “sempre” del mito, che è un territorio, a dirla tutta, che a Pirrotta piace frequentare, nel suo teatro. Anche dove, magari, in che luogo. Che importa, il “dove”?
«Orazio e Anna parlano in siciliano ma la loro storia credo sia ovunque, una tragedia di città o di provincia. E il loro spazio penso sia più quello della follia che quello fisico, è la gabbia del delirio che imprigiona le loro menti, la ragnatela della febbre che li assale e li rinserra dopo che hanno intravisto un barbaglio di felicità che, da lontano, dopo gli anni del dolore, del negarsi e del donarsi, scambiano per un’improvvisa catarsi. E non si accorgono che quella è invece una trappola. Tesa, magari, dagli stessi dei».