“Una sola storia” per raccontarne quattro che convivono nella stessa vita pur camminando su binari diversi. Un paesino dell’entroterra agrigentino in pieni anni Cinquanta descrive la vita di un’amante per scelta e della famiglia di lui con moglie e figlio al seguito. La scena è buia, i vestiti sono neri e sul palco del teatro del Canovaccio le attrici sono solo tre: Giuliana Accolla, Valentina Ferrante ed Ersilia Saverino. Lui, il marito che ha sposato una donna che non ha mai amato, con la quale ha fatto un figlio – perché così doveva essere – e ha scelto come amante la donna che amava incontrata troppo tardi, è una voce fuori campo interpretata da Mariano Rigillo.
Sul palco le storie si intersecano tra loro completandosi a vicenda grazie alla regia di Tatiana Alesci che riesce a trasporre in modo efficace il romanzo di Elita Romano presentando al pubblico i colori grigi dei sentimenti di quattro vite che hanno patito anche senza saperlo.
Lei, l’amante che ha accettato l’amore perché quello voleva e quello poteva avere. Sempre Lei lo avrebbe avuto tutte le sere dopo cena, con la pioggia o la luna splendente. E a lui avrebbe lasciato addosso quel profumo che ne avrebbe sancito la proprietà anche alla fine di ogni giornata, quando sarebbe rientrato nel letto coniugale per dare rispetto a quei valori borghesi a cui aveva detto di sì per sempre. Eppure lei – l’amante – voleva e chiedeva solo quello: l’amore. Per quell’amore era stata abbandonata dalla sua famiglia, per quell’amore aveva rinunciato ad andare al funerale del “suo” uomo e per quell’amore aveva chiuso la bottega e indossato abiti neri in segno di lutto. Ma l’altra lei – la moglie – per lei amante, non esisteva. Nulla di lei aveva voluto sapere e mai l’aveva voluta incontrare, semplicemente perché lei, la moglie, non esisteva. E continuava a non esistere nonostante quel figlio che lui donò alla donna “giusta”, negandole la felicità di una gravidanza ahimé impossibile.
L’altra lei, la moglie, sapeva e accettava e soffriva e forse amava… “Perdio forse amava!” si chiede alla fine e con forza l’amante. Nonostante tutto forse lo amava quel marito che tutte le sere, dopo cena, la lasciava per vivere l’altra vita, quella vera. Forse lo aveva amato davvero fino al compimento di quell’ultimo respiro che l’aveva condotta alla morte.
Ora che lei – la moglie – non c’era più, lui – il marito-amante – ora sì che le offre un anello. Mai chiesto e mai desiderato. E lei, l’amante, lo rifiuta. Vuole l’amore. Solo quello. A dispetto dell’odio della gente che parla supecchiu e di quel figlio di lui che la condanna. Ma anche lui, il figlio, capirà. Quando si ritroverà a percorrere gli stessi passi del padre in un circolo vizioso che non si conclude mai, capirà. E la accetterà. Nella solitudine di un paese che non potrà capirlo, sarà lei, l’amante, l’unica alla quale potrà confidare i suoi segreti con la certezza di essere capito.
«Rapporti veri tenuti rigorosamente celati, a fronte di rapporti di facciata, apparenze sterili da esibire come trofei. Tempi che cambiano, storie un tempo “giudicate male” – recita il fogli di sala – che tornano e si ripetono consapevolmente. Un groviglio di passioni, frustrazioni, rimorsi e rimpianti che riesce a distruggere i sogni in cui ogni singolo personaggio ha creduto e riposto fiducia. Ossessionati dalla paura di ferire, tutti finiscono per ferire tutti, anche se stessi. E il denominatore comune è la solitudine come privazione di qualcosa o di… qualcuno: di un padre per un figlio, di un marito per una moglie, di un compagno per l’amante. Un puzzle che si scompone e ricompone per trovare, solo nel finale la sua dimensione. Quando è troppo tardi e i giochi sono fatti».
Monica Adorno