“Oh mamma, siamo in guerra”. L’ultima volta che la mia testa aveva elaborato questa frase era l’11 settembre del 2001. Alle tre e mezza di un pomeriggio qualunque stavo guardano un telefilm alla tv prima di andare in redazione e la programmazione si bloccò per un’edizione straordinaria… “che cappero sarà successo?” – e non era “cappero” la parola che mi venne in mente -. Bastò aspettare qualche secondo e l’orrore di quel crollo era lì davanti a noi in un turbinio di angoscia che non avrebbe avuto pace per tanto tanto tempo. Non me la sento di fare un paragone tra l’11 settembre in America e il 13 novembre a Parigi, forse perché non sono in grado di farlo, forse perché il numero dei morti delle Torri Gemelle me lo impedisce. Eppure la frase si è ripresentata allo stesso modo nella mia testa mentre guardavo in diretta ciò che stava succedendo a Parigi. Prima allo stadio poi al Bataclan, poi in ciascuno di quei posti in cui la furia di terroristi senza scrupoli ha falciato centinaia di vite umane. Giovani vite umane soprattutto, in un terrore così improvviso da lasciare senza fiato anche noi che assistevamo, in diretta e comodamente seduti sul divano, questo scempio. Adesso è così che si combattono le guerre: qualcuno in trincea a dare sangue e vita e gli altri in diretta in tv in un’assoluta impotenza che se da un lato produce angoscia, dall’altro genera i mostri della supponenza e dell’odio in un quel mondo che sembra così libero dei social network. Eppure è una libertà effimera nascosta dallo schermo di un pc che elimina il peso del “metterci la faccia” per davvero. E lì siamo tutti maghi, tutti strateghi, tutti profondi conoscitori delle manovre militari, del pensiero dei terroristi, di ciò che ogni agenzia di intelligence dovrebbe fare. Così preparati ad affrontare qualsiasi nemico, da rendere inutile ogni studio o approfondimento. Ma è la guerra in diretta che l’altra sera mi ha investito azzerandomi il respiro. Immagini senza fine di uno strazio continuo eppure senza la forza reale di lasciarle andare. È l’altro modo di combattere le guerre quello a cui stiamo assistendo, quello che facciamo entrare fin dentro casa? È la guerra “alla moda” e che fa trend quella che inseguiamo in ogni immagine di ogni canale tv, di ogni trasmissione, alla ricerca ogni volta di qualcosa che passi il segno e il confine che mai fino ad allora avremmo varcato. La ricerca spietata di quella sequenza perfetta che consenta al conduttore di turno la sua esclusiva e a noi la visione in diretta dell’attimo esatto in cui il folle di turno innesca la miccia della bomba che lo farà saltare in aria. Ma sempre e solo dopo aver spento la vita di troppi che solo per caso, e senza colpe, si trovavano in quel posto e in quel momento.
Per quanto ci pensi e ci ripensi non riesco a comprendere come si possa decidere di farsi esplodere sperando, con quel gesto, di conquistare uno qualsiasi dei paradisi pubblicizzati dalle varie religioni. Come si possa trovare soddisfazione dall’uccidere un altro essere umano anche in nome di un versetto del Corano che inciti alla punizione degli infedeli: «Quando incontrate gli infedeli, uccideteli con grande spargimento di sangue e stringete forte le catene dei prigionieri» (Sura 47:4). Perché si tratta di questo, no?
Ma è pur sempre guerra. Solo guerra. E non importa dietro quali confini si accende né qual è lo Stato che compare nel passaporto di chi non c’è più. Era italiano il passaporto di Valeria Solesin uccisa al Bataclan. Era italiano il passaporto di Orazio Conte ucciso a marzo sulla spiaggia della Tunisia. E insieme a loro uomini, donne e bambini di ogni parte del mondo, colpiti ogni volta in ogni parte del mondo. Nuovi attentati. Nuovi morti. Nuove stragi. Nuove angosce.
La prossima volta toccherà a noi? Saranno dentro il Giubileo previsto a Roma? Qualcuno dice no. Ne è convinto: l’avrebbero fatto all’Expo di Milano. E aggiunge che l’Italia è un trampolino di lancio, e di passaggio, troppo ghiotto per subire attacchi simili. E in più potremmo addirittura essere base logistica di questi debosciati. Ma chi si azzarda a fare previsioni che valgano di più di quelle meteorologiche? Nessuno. Eppure in queste previsioni, in questi dubbi che inevitabilmente ci assalgono c’è la scintilla della paura e del terrore. Un dubbio che mina alla base la nostra quotidianità e tiene sotto mira la nostra libertà, quella vera, di pensiero e di movimento in modo che non ci spinga troppo più in là del nostro divano.
Monica Adorno