Cambia tutto per non cambiare nulla. Il nuovo premier sposta Alfano agli Esteri, conferma la Boschi e dà il benvenuto alla Finocchiaro. Intanto però gli italiani sono stanchi e vogliono il voto anche se questo potrebbe favorire “un’invasione” del M5S
Se qualcuno ha pensato che votare No al referendum avrebbe significato azzerare il Governo e contestualmente eleggere una nuova maggioranza, ha sbagliato di grosso. Anche se il voto del 4 dicembre è stato sostanzialmente politico, quello su cui ci siamo espressi andando alle urne è stato il referendum. Nient’altro che quello: mantenere (con il No) o riformare (con il Sì) la Costituzione della Repubblica italiana. L’Italia e gli italiani hanno scelto il No e Renzi ha mantenuto la promessa di dimettersi, da premier sia chiaro non da segretario di partito. Il Pd, per ora, fino a quando non andremo davvero alle urne per esprimere un voto politico, resta il partito di maggioranza al Governo e Renzi da casa, da skipe, da twitter – da dove volete voi – continua a esprimere la forza del Pd. Non vi piace, magari non ci piace proprio, ma questo è. E Gentiloni – qualcuno burlescamente l’ha definito Genti(c)loni – e i suoi 18 ministri non sono altro che questo: l’espressione, poco cortese se vogliamo, di chi si può permettere, Costituzione alla mano, di applicare ciò che con il voto abbiamo sancito: la massima Carta del nostro Paese. Cortesia a parte, avremmo gradito un po’ di opportunità, un pizzico di buone maniere e di rispetto per chi la politica la guarda da lontano, ma ne subisce i colpi. Insomma potremmo dire che si potrebbe anche accettare il fatto che la maggioranza è sempre la stessa da anni e anni, senza che il popolo abbia potuto dire pio. E anche che in questo momento l’unico modo per andare avanti è quello di varare questa benedetta legge elettorale prima di andare al voto. Nel frattempo sembra che ci meritiamo un governo tecnico in cui Gentiloni è la punta forse più gentile di una piramide che, davvero, lascia senza fiato confermando 12 (su 18) del Governo uscente. E c’è da dire anche sulle new entry.
Angelino Alfano passa in un sol balzo dal ministero degli Interni a quello degli Esteri. Ha un Sì determinante, non c’è dubbio, ma ugualmente questo ministero lascia perplessi. Agli Interni invece va Marco Minniti, alla Difesa Roberta Pinotti, Pier Carlo Padoan all’Economia, alla Giustizia Andrea Orlando e allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, Maurizio Martina alle Politiche Agricole, Gian Luca Galletti all’Ambiente, Graziano Delrio ai Trasporti, Giuliano Poletti al Lavoro, Valeria Fedeli all’Istruzione, Dario Franceschini confermato ai Beni Culturali, Beatrice Lorenzin alla Salute nonostante le polemiche collezionate nel suo mandato. Tra i confermati illustri persino Maria Elena Boschi nominata sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. Gentiloni ha tenuto per sé la delega ai Servizi Segreti. I ministri senza portafoglio sono: Marianna Madia confermata alla Semplificazione e Pa, Enrico Costa agli Affari Regionali. Claudio De Vincenti alla Coesione Territoriale e Mezzogiorno, Luca Lotti allo Sport e poi una novità tutta siciliana, Anna Finocchiaro, alle Riforme e ai Rapporti con il Parlamento.
Alfano e Boschi hanno catalizzato l’attenzione delle polemiche ma anche loro, nell’esercito dei 20, hanno giurato e se qualcuno si è permesso di dire che non avrebbe votato la fiducia (vedi M5S e Lega), altri hanno fatto presto a sottolineare che questa maggioranza del loro voto ne può fare a meno. Ma le domanda che corrono sul filo sono tante: quando andremo al voto, ad esempio, quando sistemeranno la legge elettorale. Se continueranno a parlare e parlare fino a quando riusciranno a raggiungere lo status agognato del “ho diritto all’onorevole pensione”. Insomma sembra chiaro che a questo punto l’unica chance è quella del voto anche a costo di subire – per chi la valuta così – un’invasione di grillini, basta che sia un’invasione da consenso elettorale.
Monica Adorno