Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale auspicano meno smartphone e più arte, cultura e sport. Nuove e vecchie generazioni sono ossessionate dalla connessione, effimera panacea di una socialità che non ha un corrispettivo effettivo nella realtà
In tanti siamo convinti che la tecnologia è la nostra nuova dipendenza. Ormai non si parla più o si parla sempre meno, viviamo a testa bassa davanti allo schermo di pc, telefonini e smartphone. Ormai possiamo dire addio al vecchio sistema augurale, cartoline e lettere nell’imminenza delle feste principale: Pasqua e Natale. Oggi, messaggi, link, figurine tramite i social la fanno da padrone. Il piccolo schermo (La TV) ha fatto la parte da leone sin dalla oltre la metà del secolo scorso, poi le sale cinematografiche si sono quasi svuotate, un film si poteva vedere stando seduti sul proprio divano. La prepotenza di questo dispositivo, la tv, era tale che diventò il vero padrone di casa. La sua presenza ebbe la meglio sul personaggio intorno al quale era organizzato il rapporto nelle famiglie: il padre padrone decideva quali programmi aprire. Inizialmente è stato accettato da tutti con gioia, ma subito dopo provocò non poche preoccupazioni, quando ci si rese conto che creava dipendenza ed era pressoché impossibile spostare un bambino dal suo schermo.
Passano gli anni, il progresso avanza e ai nostri giorni ci accorgiamo che quell’apparecchio ormai è quasi un pezzo da museo, la tecnologia è passata, non più nei salotti di casa, ma nelle nostre mani, nei telefonini in miniatura grandi quasi quanto un pacchetto di sigarette. I programmi televisivi hanno aperto la strada ad una realtà più invasiva: i telegiornali e la pubblicità, ma anche i relity. Poi c’è internet, la posta elettronica, i messaggi, i social… un’autentica rete che ci intrappola. Ci sentiamo obbligati ad essere costantemente connessi, anche quando ci attendono le meritate ore di riposo. Ci sentiamo oltretutto pronti a rispondere ai messaggi non appena letti, commentare le idee degli altri dimostrando di far parte di quella comunità virtuale, composta anche da persone sconosciute, alle quali conversazioni confermiamo con un “Mi piace” (amen). Siamo globalmente più connessi che mai, ma la vita dell’era digitale è ben lungi dell’esser l’ideale. L’ottanta per cento (si legge nei commenti su questi argomenti) degli utenti di Facebook riconosce che il controllo dei messaggi ricevuti è la priorità delle attività del giorno: una vera e propria overdose digitale. Il problema, dunque, non è essere collegato ai Social, ma tornare a connettersi con se stessi ed aprire uno spazio ad altre attività salutari, alla famiglia, alle amicizie vere.
A un’amica virtuosa, Grazia La Naia, riconosco il merito di questa riflessione nata da un suo post su Facebook: “Vivere è stare insieme, guardarsi negli occhi e volersi bene. Ogni giorno condividiamo post di vario genere, ci scambiamo saluti, baci e bacetti tramite il telefonino, stringiamo amicizie, passiamo ore a leggere commenti, andiamo a curiosare nelle pagine degli amici, aspettiamo con ansia quante reazioni susciterà il nostro post, siamo felici quando raccogliamo tanti “Mi piace”. Stamattina alzandomi con la solita ansia di vedere chi mi ha mandato il buongiorno e di leggere i post di Facebook, ho pensato un po’ preoccupata, ma come farò se un giorno non potrò più avere Facebook o WhatsApp? Poi ho pensato, riprendendomi dall’ansia, ai nostri nonni che sono sopravvissuti avendo per di più tanti amici reali. Noi invece scriviamo ore e ore di messaggini, fino ad avere le dita intorpidite… Ma non sarebbe meglio alzarsi dal divano e incontrarci di persona consolidando più rapporti umani e meno falsità? Abbandoniamo la dipendenza del telefonino e facciamo più uso delle gambe”.
Il pensiero di Grazia non è singolare, in molti lo condividono da Andrea Camilleri a Giuseppe Dipasquale. Il “papà” di Montalbano rileva che questo mondo virtualegenera spesso isolamento e individualismo: «Oggi il cellulare e il computer hanno sostituto nei ragazzi quella necessità di confronto, rimpiazzando l’incontro con l’altro con la solitudine dello schermo – continua Camilleri – un mondo che per effetto della comunicazione globale dovrebbe renderci più solidali e vicini, finisce per lasciarci più soli che mai. Forse varrebbe la pena alzare lo sguardo dal display che ci governa, e scoprire che accanto a noi ci sono tante persone che non attendono altro che un sorriso semplice, vero e per nulla virtuale».
«La società contemporanea occidentale è afflitta da una condizione tipicamente anaffettiva – conclude il regista Dipasquale – non siamo più capaci di amare e di dimostrare affetto per gli altri. Questo processo determina una fenomenologia variegata di aggressività, di lotta, di agonismo tirannico. Quale antidoto a tutto ciò? L’arte, la cultura e lo sport, che hanno un fine comune: la volontà di aggregarsi, di stare insieme e condividere una esperienza comune».
Carmelo Santangelo e Monica Adorno