“Il Governo è ostile all’industria”. “Siamo un Paese che ha la seconda manifattura d’Europa, ma è ostile all’industria”. “Non investiamo più”. Parole gravi e dure quelle del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia.
Ancora più gravi se si pensa Che sono state pronunciate alla vigilia di una competizione elettorale, sia pure di valenza regionale, quella Sarda, che ha visto:
Arretrare i 5 stelle
Frenare, se pur vittorioso, il Centro Destra
Ringalluzzirsi la sinistra.
Un endorsement per le opposizioni? Chi lo sa! Certo che Boccia non ha mai nascosto in quale direzione guardava con simpatia prima del 4 marzo 2018, e non mi risulta che abbia cambiato idea.
Parole che, in altra epoca, e pronunciate da altro presidente, avrebbero fatto cadere il Governo.
Le sue dichiarazioni tuttavia contengono alcune affermazioni “terapeutiche” assolutamente incontrovertibili:
Apriamo i Cantieri per ripartire,
Bisogna intervenire senza creare altro deficit,
Temiamo l’incertezza e quindi abbiamo paura di investire.
La terapia è corretta, mancano i farmaci.
Manca cioè, già da 20 anni, lo strumento con cui attuare strategie di politica industriale, che oggi ci consentirebbe più agevolmente di stimolare la ripartenza.
La ricetta è buona, d’altra parte nulla di nuovo sotto il sole: regole keynesiane e coerente visione politica.
Noi però siamo disarmati, l’ultimo “ferro del mestiere” lo abbiamo appeso al chiodo nel 2000, dopo un lungo e progressivo inutilizzo, sacrificandolo sull’altare della economia di mercato, obiettivo sicuramente interessante, a patto di poterselo permettere. Questa fu però la decisione del Governo di Giuliano Amato e dei ministri Enrico Letta, all’industria e Visco alla programmazione economica, tanto per dare a Cesare quello che è di Cesare.
Il “ferro del mestiere” era l’IRI, creato nel 1933 dal Governo Mussolini con la regia dell’economista Alberto Beneduce, e dell’industriale siciliano Guido Jung.
Lo Stato italiano, oltre 20 anni fa ha deciso di non impegnarsi più a studiare “misure politiche statali a sostegno del settore industriale, o secondario, al fine di favorirne la conservazione e lo sviluppo in termini di produzione, produttività, fatturato e profitto e con essi i livelli occupazionali”, così recita la regola economica.
Ora il Governo riprende il tema degli investimenti come terapia d’urto, il presidente del consiglio Conte parla di piede sull’acceleratore e di un motore Ferrari, ma al contempo, come si fa nelle gare, il piede sinistro sta sul pedale del freno a bloccare TAV e grandi opere in generale.
Nonostante tale schizofrenia gestionale e la semi bocciatura di Ficht, lo spread scende e la borsa sale.
Nonostante inquietanti segnali di retrodatazione al medioevo di modelli gestionali, come nel settore delle acque, ancora stiamo in piedi, ma per quanto?
C’è da augurarsi che la non facile contingenza ci porti a riscoprire la cara vecchia maglietta della salute, che in economia è la strategia di politica industriale, lasciando ad altri più robusti la camicia sbottonata e l’esibizione di una muscolarità che non ci si addice.
Alfio Franco Vinci