Da sempre, per assistere ad un evento sportivo occorre acquistare il biglietto con congruo anticipo, senza il quale puoi solo aspettare di conoscere i risultati al primo telegiornale.
Più l’evento è importante, più il biglietto è costoso e vengono anche sospese tessere omaggio ed ingressi di favore.
È l’antica regola del “pagare soldi vedere cammello”.
O, se preferite, meno prosaicamente, è la sempiterna regola della domanda e dell’offerta, cui nessuno può sottrarsi, in affari, così come nella vita di ogni giorno.
Quanti fra noi si sono convinti di essersi goduti “a gratis” gli Europei di calcio, e di potersi godere, parimenti “a gratis” le imminenti Olimpiadi di Tokyo, non hanno calcolato che il biglietto collettivo lo pagheremo tutti e sarà salatissimo.
Chi pensa che lo sport sia indenne dalle regole del business, è lontano anni luce dalla realtà. Attorno a tutte le coppe e alle Olimpiadi di Tokyo, ruotano interessi, certamente leciti, che è impossibile contenere, nemmeno con l’incombente rischio della ripartenza del virus, i cui costi saranno collettivi, mentre i profitti degli eventi andranno ai pochi soliti noti.
Direbbero gli anglofoni “the show must go on”, o meglio “the business over the world”.
Gli affari messi in campo per i due eventi non potevano essere fermati perché tutto ciò che si muove attorno ad essi, prescinde dalla prudenza, dalla salute pubblica, dai contagi inevitabili, dalle sfilate trionfali come ai tempi dell’antica Roma, dai permessi mai rilasciati, ma concessi, di fatto, dalla soccombenza delle Autorità di fronte al Popolo – cui, oggi come ieri, bisogna garantire “panem et circenses” – e al profitto, nuovo motore del mondo.
Cose di casa nostra? Non solo, ma certamente più eclatanti.
Cose di casa nostra, invece, e solo di casa nostra, è la “comparsata” concessa dal Presidente del Consiglio in carica all’ex presidente del consiglio, non deputato né senatore, professore in aspettativa, ma semplicemente “capo politico incoming” del movimento 5 stelle, (incertus an incertus quan), che dal banchetto sotto palazzo Chigi, ha ripreso l’ascensore per il primo piano, da cui è ridisceso con il sacco pieno di pive, che, per questa volta, fortunatamente per gli italiani, non hanno suonato.
Queste sono “cose di casa nostra”, di cui non andare fieri, e certamente a disdoro della severa coerenza dell’azione di governo del professor Mario Draghi.
Prendiamola come viene e, come avrebbe detto il grande Paolo Villaggio: “io speriamo che me la cavo”.
Alfio Franco Vinci