Viaggio nel mondo dei beni confiscati alla mafia tra normative da snellire, aziende fatte fallire e dipendenti (dello Stato) lasciati a se stessi

Nello Musumeci e Chiara Barone durante la pausa caffè

Nello Musumeci e Chiara Barone durante la pausa caffè

Venerdì scorso l’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro ha organizzato un corso di formazione per i suoi iscritti su un tema delicato e attuale: la confisca dei beni tolti alle organizzazioni criminali e il loro riutilizzo. L’intento di Guido Sciacca, vice presidente dell’Ancl, che ha aperto i lavori, era quello di affrontare un argomento importante e delicato nel duplice aspetto occupazionale e di prospettiva futura nell’impiego che questi beni potrebbero avere anche nel terzo settore. Autorevoli i relatori presenti al tavolo, tra questi Nello Musumeci, presidente della Commissione regionale antimafia; Chiara Barone, presidente di Addiopizzo Catania, e l’avvocato penalista Cristiano Leonardi. Dai loro interventi e dalle interviste fatte durante il convegno il quadro che è emerso è stato “forse” un po’ disarmante, ma sapere quali sono i problemi è un modo per sapere da dove iniziare per risolverli con una buona dose di buona volontà.
Per quanto lunghi, crediamo che leggere questi interventi, nella loro interezza, possa essere fonte di conoscenza, presa di coscienza e attenzione.

NELLO MUSUMECI: «SENZA UNA GESTIONE CORRETTA
LO STATO PERDE E VINCE LA MAFIA»

Nello-Musumeci«Si cominciò con la legge Rognoni-La Torre la confisca dei beni di non legittima provenienza ai mafiosi, che prima non era contemplata, e si è arrivati nel 1996 – ha dichiarato Nello Musumeci nel suo intervento – alla legge 109 che disciplinava il riutilizzo sociale di questi beni. E poi nel 2010 la legge 50 sulle Agenzie nazionali (ANBSC, Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) e infine nel 2011, il codice antimafia. L’ultimo prodotto normativo che disciplina questa materia.
«Possiamo dire che l’intuizione del legislatore è stata felice ma che a distanza di qualche anno, il corpo normativo va sottoposto a revisione. È stata efficace l’idea della confisca, perché il mafioso non teme il carcere, non teme neppure di dover finire ammazzato. «È tutto messo nel conto. Il mafioso lavora per consolidare l’associazione criminale che passa attraverso l’acquisizione e l’arricchimento del territorio. Se lo Stato toglie il patrimonio allora sì che la sconfitta è deflagrante e insanabile. «Oggi sono 15.000 i beni confiscati. 8.500 affidati alla gestione dell’Agenzia (ANBSC), 7.500 affidati ai soggetti che la legge prevede essere i destinatari.
«Un vero e proprio tesoro che avrebbe bisogno di un apparato complesso e articolato. Il problema non è soltanto dei poteri dell’Agenzia ma della legge che nulla fa per accelerare il processo, così si traduce in insuccesso questa confisca che invece doveva essere il simbolo di una vittoria.
«Se, per esempio, viene confiscata una casa che rimane chiusa per anni e quindi si deteriora a poco a poco, non viene fuori un messaggio positivo per lo Stato, e in questo ha vinto la mafia, non ha vinto lo Stato».

CHIARA BARONE (ADDIOPIZZO): «I DIPENDENTI
DELLE AZIENDE CONFISCATE SONO PUBBLICI»

03 A - logo addiopizzo cataniaTecnico e pratico l’intervento di Chiara Barone presidente di Addiopizzo che ha raccontato l’esperienza con i lavoratori della Riela. «Ci hanno contattato i lavorati della ex Riela perché erano stati abbandonati da chiunque. Non ci riferiamo neanche alla politica, ma proprio agli operatori. In sostanza la loro azienda era stata truffata da un’azienda, finta e terza, degli stessi mafiosi a cui era stata confiscata. Una truffa di sei milioni di euro che erano stati addirittura messi in bilancio. In questo modo l’azienda è risultata in fallimento – anche a seguito di altri errori grossolani, ha continuato Barone – ed è stata chiusa per sempre. Ma la colpa non era dell’azienda che andava male. Anzi, andava bene. Ma nella sua contabilità c’era di tutto: crediti non riscossi, amministratori corrotti, e già condannati definitivamente per truffa, e altro. Abbiamo cercato di richiamare l’attenzione della Commissione nazionale antimafia della prefettura dell’Agenzia, ma nulla. Gli unici che ci sono stati ad ascoltare sono stati quelli della Commissione nazionale».
Avete parlato anche con la commissione regionale?
«Sì, via email. Ma i contatti li abbiamo avuti di più con quella nazionale con la quale abbiamo organizzato tavoli tecnici per reinserire i lavoratori, magari indirizzandoli in altre aziende. L’Agenzia Nazionale dei beni confiscati è un organo che non vede, non sente, non parla. Fa solamente danno lavorando così e con questa normativa a disposizione. I lavoratori sono stati letteralmente abbandonati e ancora lottano per avere il tfr. La risposta che ci danno è che quei lavoratori sono dipendenti privati, ma non è così. I dipendenti delle aziende confiscate sono lavoratori pubblici e l’ha detto anche il Consiglio di Stato dove per lavoratori “pubblici” mi riferisco a tutti quei lavoratori, come i lavoratori dell’ex Riela group, che sono stati assunti da una agenzia privata, ma per conto dello Stato».
Com’è finita?
«L’azienda è finita. Gli avevano promesso – solo grazie alla commissione nazionale – che loro si sarebbero potuti costituire in cooperativa e che avrebbero assegnato loro il capannone dell’azienda e le attrezzature. Ovviamente con un investimento da parte dei dipendenti, investimento che loro hanno fatto facendo affidamento sulle promesse dell’Agenzia nazionale, e buttando, però, alle ortiche i loro soldi visto che, alla fine di questo iter, l’Agenzia ha deciso di non affidare più, a loro, il capannone. E questo a dispetto del fatto che i lavoratori avevano deciso di scommettere su se stessi vestendo i panni – non facili – di imprenditore.
«Senza voler entrare nel merito delle procedure, il prefetto Postiglione, che è il direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati ed è l’unica persona che ha davvero il potere di fare andar bene le cose, ha detto che questi lavoratori (non solo quelli della Riela, ma anche quelli della Lara) sono persone che chiedono assistenzialismo. Ora, è vero ed è giusto – continua la Barone – che l’azienda viene confiscata, però come prima cosa va detto che l’azienda non va male, la fanno andare male, e poi che i lavoratori non hanno colpa di tutto questo. Anzi. Si parla di beni come se fossero cose e non si capisce che queste “cose” sono aziende produttive che portano lavoro. Quando l’azienda viene confiscata passa dal mafioso allo Stato, in teoria il dipendente potrebbe non accorgersi neanche di questo cambio del “datore di lavoro” nominato dal tribunale.
«Il tribunale è quello che interviene nella prima fase, poi subentra l’Agenzia. E con l’Agenzia subentrano i problemi, perché è nata da poco, non ha dipendenti e quindi non riesce a gestire l’enorme patrimonio di beni confiscati. Ma non ha neanche lo spirito giusto.
«La vera battaglia per le modifiche normative dovrebbe farla proprio l’Agenzia, il prefetto ci fa una figura orribile».

CRISTIANO LEONARDI: «LE LEGGI SONO STATE FATTE BASANDOSI SULLE EMERGENZE»

Convegno Ancl, da sinistra: Nello Musumeci, Cristiano Leonardi, Chiara Barone ed Erasmo Palazzotto

Convegno Ancl, da sinistra: Nello Musumeci, Cristiano Leonardi, Chiara Barone ed Erasmo Palazzotto

Il corpo normativo e le evoluzioni che ci sono state dagli anni Ottanta a ora è quello di cui ha parlato l’avvocato Cristiano Leonardi. «In Italia la confisca è disciplinata dall’art. 240 del codice penale, tramite questo lo Stato fa suo un bene che appartiene a un privato. In merito alle confische dei beni appartenenti alle criminalità organizzate esistono almeno tre tipologie diverse. La prima è quella prevista dall’art. 416/bis comma 7 (introdotto nel 1982) che prevede l’obbligo di confisca dei beni che risultano conseguenza di attività mafiosa. Una norma (ma non solo questa) introdotta dopo l’omicidio La Torre e quindi in uno stato di emergenza. In questo caso basta che il “mafioso” sia indiziato per procedere intanto con il sequestro del bene e poi con la confisca.
«Una serie di elementi che devono essere di una “certa pesantezza” – continua Leonardi – ma che non hanno bisogno del processo penale che porti poi alla condanna del soggetto. In Italia abbiamo introdotto anche la confisca allargata, introdotta con l’articolo 12/sexties 306/92 (altro anno particolarmente nefasto per la morte di Falcone e Borsellino e, quindi, anche in qui in piena emergenza) che fu un procedimento devastante per la mafia. Con la confisca allargata ci si sgancia anche dal rapporto diretto tra il reato e il bene: da un lato quindi c’è bisogno che il soggetto sia stato condannato per il reato di associazione mafiosa, però gli si possono confiscare beni, che non sono di diretta provenienza dell’attività criminale, per il semplice fatto che il soggetto non sia in grado di dimostrare la sua capacità reddituale rispetto al bene. In soldoni, se ha una Ferrari deve dimostrare di potersela permettere. Si arriva anche a sequestrare beni che non sono intestati al soggetto ma sono, però, a lui riconducibili.
«Nel 2010 c’è stata la modifica sostanziale con l’istituzione dell’Agenzia che ha sede principale a Reggio Calabria. Una volta che dal sequestro si passa alla confisca (ancorché non definitiva) del bene, l’Agenzia entra in diretto possesso (proprietà) del bene per conto dello Stato. A quel punto deve decidere come rapportarsi con l’amministratore, che può revocare nominando, al suo posto, qualcun altro. I poteri dell’Agenzia sono ampissimi e può anche decidere di vendere il bene o l’azienda confiscati attraverso licitazione privata o, addirittura, con una trattativa privata (imponendo al privato l’obbligo di tenerli per almeno cinque anni, se si tratta di beni immobili).
«Però il il rischio che dietro questo “terzo” possa nascondersi un’associazione criminale è forte e, del resto, è già successo.

«Dall’altro lato ci sono gli amministratori giudiziari – al centro delle cronache di questi giorni, sottolinea Leonardi – che guadagnano cifre spropositate e, in più, peggio va l’azienda più loro guadagnano. Già solo per il fatto che fanno durare tantissimo la procedura.

«La legge, in realtà, aveva introdotto dei termini massimi: l’amministratore giudiziario interviene nella fase in cui c’è la misura di prevenzione con la richiesta di confisca. Tutto inizia generalmente con un sequestro preventivo nel tempo in cui fanno il procedimento per accertare che davvero quel bene deve essere confiscato. Quindi tolgono il bene (l’immobile o quello che è) e viene nominato un amministratore giudiziario che deve rendere conto al giudice del tribunale che ha in mano il procedimento. Tra il sequestro e il provvedimento di confisca per legge non può passare più di un anno e mezzo, tempo che però può essere raddoppiato in caso di procedura particolarmente complessa. Si arriva così a tre anni in un batter d’occhio. Poi c’è il primo grado e tutti gli altri passaggi. L’Agenzia interviene dopo la confisca di primo grado.
«Un altro problema è dato dal fatto che per questi amministratori è previsto un albo che non è mai stato creato. L’unico a crearlo è stato il tribunale di Palermo anche se l’albo dovrebbe essere nazionale. In più quando si parla di cessione di aziende la normativa prevede che l’amministratore non solo deve essere iscritto all’albo ma in una sezione specializzata che includa, oltre a quelle tecnico-giuridiche, anche competenze imprenditoriali».

Monica Adorno

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