Una novella di Filippo Marotta racconta credo, devozione e protezione dei catanesi durante la famosa colata lavica del 1669 che distrusse la città
Abbiamo letto ed apprezzare il racconto degli avvenimenti della colata lavica del 1669 negli ambienti religiosi, l’eruzione che poi distrusse Catania ed i paesini etnei, raccontati nel libro di Filippo Marotta, “Novelle sotto il vulcano”. Ma la cosa che ci ha colpiti di più è stata la costante protezione chiesta a Sant’Agata ed è per questo che vi riproponiamo questo racconto. Un modo un po’ diverso per descrivere devozione e credo per la terza festa più importante del mondo.
La storia, sin dall’antichità, è ricca di episodi disastrosi che hanno interessato le zone alle falde etnee. In particolare, l’evento più catastrofico degli ultimi anni, si sviluppa nel 1669 quando la lava addirittura raggiunse il mare,
Era l’otto marzo del 1669, il primo venerdì di quaresima, all’improvviso, orrendi tuoni e spaventosi muggiti, preannunciavano la crudelissima strage dei fertili terreni, e dei villaggi Etnei, e suscitò terrore ad ogni gente. “Patri Parrinu, patri Parrinu, chi succeri”? “Arfina nun ti scantari, a muntagna si fa sintiri, quannu si smovi idda nuddu a po’ tiniri”. Il sacerdote don Vincenzo Macrì, parroco della chiesa Sant’Antonio di Padova di Nicolosi, così si rivolse ad Arfina, la sua vecchia perpetua.
Due giorni dopo, l’11 marzo, tra boati, cenere e spettacolari flussi di lava, ebbe origine nei pressi di Nicolosi, in seguito ad un imponente squarcio, nella cui parte inferiori si formarono diverse bocche esplosive (Monti Rossi) che investirono il paesino di Nicolosi. L’inarrestabile fiume lavico cominciò a preoccupare i paesini più a valle. Il popolo di Malpasso, impaurito, si rivolse al Vicario Foraneo chiedendo aiuto e consiglio. Fu consultato anche il Vescovo di Catania, Fra Michelangelo Bonadies, il quale dispose che si esponesse davanti alle porte delle chiese il Santissimo per evitare eventuali altri pericoli e crolli, decise anche che il giorno successivo (lunedì 11) di buon mattino si facesse una devota processione da Malpasso a Nicolosi portando la reliquia della Gloriosa Vergine e Martire Santa Lucia. Il lungo serpentone di gente vide molti sacrificare il suo corpo con spine in testa, chi scalzi, chi semi nude strusciare per terra con le ginocchia, “Pietati, misericordia” gridavano, e piangendo impetravano il perdono dei loro peccati. Ma Dio non volle invierire su quella povera gente; dopo aver percorso alcuni chilometri, inspiegabilmente si fermarono e non vollero andare più avanti. Fu la loro salvezza: un violentissimo terremoto scosse la terra e non lasciò in piedi case e chiese di Nicolosi e la zona avanti al corteo si sprofondò inghiottendo ogni cosa, restò in piedi soltanto La Chiesa Madre. “A Catania, a Catania scappamu”. Una fiumara di gente si incamminò alla volta della Clarissima città di Catania. Intanto il Vescovo Fra Michelangelo Bonadies si prodigò per rendere disponibile le stanze del suo palazzo, dei senatori di Catania e del pubblico ospedale per quella povera gente che ormai vedeva solo in Sant’Agata, antica domatrice dei furori del Mungibeddu, l’unica e ultima ancora di salvezza. Intanto la furia della natura imperversava in direzione Catania e, nel mentre, si erano aperte altre quattro bocche di lava. I catanesi iniziano a preoccuparsi e qualcuno ricorda il triste evento di 500 anni prima. Si invoca Sant’Agata. Ma stavolta niente e nessuno riesce a fermare la colata. Da lunga distanza si vedevano spruzzi altissimi di lava, fiumi incandescenti. Sembrava che la succursale dell’inferno si fosse trasferita alle pendici dell’Etna e qualcuno sosteneva “a causa dei nostri peccati”.
Il 15 marzo il fronte lavico si era diviso in diversi bracci che avanzavano verso San Giovanni Galermo, Piano Tavola, Misterbianco, San Pietro Clarenza, Mascalucia e Belpasso (dove ora è sede della Madonna della Roccia), e successivamente verso la Clarissima Catania. I giorni passavano inesorabilmente tra speranze, paure, ansie, Catania era sempre più minacciata dal mostro infuocato, la fine sembrava ormai vicina. “Lu focu, lu focu si sta avvicinannu alla Gurna di Nicito”. “Menu mali, pi inchiri tuttu du fussatu cci nni voli di tempu”. Ma non fu così, il lago si riempì in poche ore cancellando definitivamente uno dei luoghi più deliziosi di Catania. Intanto l’eruzione avanzava. Un braccio ha superato il vecchio bastione degli infermi (oggi ospedale Vittorio Emanuele), e in poche ore, un fronte lavico di alcuni kilometri si introdusse nel mare, le pietre ardenti al contatto con l’acqua formavano dense nubi di fumo che oscuravano il cielo. L’acre odore di zolfo rendeva l’aria irrespirabile. Altro braccio di lava, lentamente si introdusse in città.
“U Munasteru, u Munasteru, u focu je avanti a chiesa ri Santa Nicola la Rena. Patri Abati, Patri Abati, abbannunamu u commentu, non putemu stari cchiu cca”. Due novizi, Figghi mei diletti, n’amu a pintiri di nostri piccati, troppu semu luntanu do nostru Signuri, Misericordia Sant’Aituzza, sulu tu ci puoi aiutari, i peri do nostru Signuri ciavemu a vasari pirchì giustamenti nni voli castiari ppi tutti i mali ca facemu”.
La leggenda popolare vuole che il disastro termina quando viene portato in processione il velo di Sant’Agata vicino alle bocche eruttive qualche chilometro a nord di Nicolosi.
Il sedici maggio il fronte lavico, costeggiando la Porta del Sale, aveva rotto un pezzo di quel muro e si era introdotta nel fossato del Castello Ursino terminando nei pressi dell’attuale pescheria. L’undici luglio, quattro mesi dopo il suo inizio, l’eruzione finalmente ebbe fine. “Patri Abati, Patri Abati, nto jornu da so festa u nostru Santu Binirittu, nni libirau di lu focu”. “Ringraziamu u Signuri, i prieri do nostru Santu e da nostra Patruna Sant’Aita ntinnirenu lu cori dell’Eternu”. “Ricurdativi ca Sant’Aituzza, quannu Fidiricu impiraturi vuleva disulari Catania, iebbi l’ardiri di dirici: No li offendere Patria Agatae, quia ultrix iniuniarum est”. L’Abate sorrise e guardò attentamente i visi dei confratelli. Nei loro volti era scomparsa la Paura. “U Signuri nn’affrigi ma non nn’abbandona; Catania rinascirà dalla cinniri cchiù bedda di Prima”.
Carmelo Santangelo