Rimarrà allestita fino al 10 febbraio 2019 la mostra sull’artista spagnolo e le sue eccentricità che lo hanno reso un’opera d’arte forse più delle sue stesse opere
Catania – Da venerdì scorso Catania sta ospitando la mostra “Io, Dalì” e per tre mesi – fino al 10 febbraio 2019, ma è probabile che verrà prorogata di una settimana – sarà possibile ammirare le opere dell’eclettico artista spagnolo che ha saputo creare opere d’arte e crearsi opera d’arte.
Abbiamo avuto la fortuna di passeggiare tra i corridoi e le sale della mostra prima ancora che fosse tutto pronto a puntino per tagliare il nastro. Ma ciò che ho apprezzato di più è aver avuto in Francesca Valenti, la curatrice italiana della mostra, una guida d’eccezione che ha saputo trasferire la sua passione nelle sue descrizioni. Ed è per questo che torneremo ad ammirare il percorso, i quadri, le grandi didascalie in un totale composto da 16 dipinti, 21 opere su carta, 24 video, 86 fotografie e 29 riviste, perché sappiamo e sentiamo che guarderemo tutto con occhi diversi. E ci intrufoleremo nella nicchia della prima sala e cercheremo di indovinare a quale domanda ognuna di quelle foto dei baffi di Dalì sta rispondendo. Perché è proprio così, quelle foto sono una risposta e la domanda non è lì ma in un libro. Ha un che di affascinante tutto questo ed è per questo che, parlando con Francesca Valenti, partiamo dalla fine e dalla ricerca dell’immortalità.
In che modo questi due aspetti si sposano con Dalì e perché?
“A un certo punto della sua vita, come capita un po’ a tutti, Salvador Dalì inizia a fare i conti con la morte. E inizia ad averne paura”.
Quanti anni aveva?
“Era ancora giovane, eravamo negli Anni Settanta. Per cui cerca di trovare una ricetta per rendere se stesso immortale. Con questa mostra vogliamo raccontare che non è un caso se Dalì è un’icona così riconoscibile. Lui ha capito – prima di qualunque altro e prima dei selfie, di instagram o della ricerca della popolarità della propria immagine tanto cara alla società di oggi – che bisognava costruire un personaggio. E lo fa… l’idea dei baffi, degli occhi sporgenti è uno studio approfondito di marketing a tutti gli effetti”.
Salvador Dalì si è sottoposto a qualche intervento per rendere la sua espressione così particolare?
“No. Ha solo capito che per diventare popolare doveva essere facilmente riconoscibile e in questo ha giocato un ruolo importantissimo il suo forte egocentrismo. Ha capito i giornalisti, ha capito i media. La ricerca della fama è stata studiata con intelligenza. Le racconto un aneddoto, quando lui va in America lo fa in nave. Erano anni in cui ogni arrivo era un evento che i giornalisti seguivano per vedere “chi” arrivava. Ecco perché quando la nave attraccò al porto di New York e capì che c’erano i giornalisti, lui si fece trovare in camera legato con le sue opere. E ottenne così un articolo sui giornali del giorno dopo”.
Si potrebbe dire che non si trova il limite tra Dalì opera d’arte e le sue opere d’arte.
“Esatto. Lui ha capito ed è riuscito a rendersi personaggio. Il percorso della mostra è proprio questo con una contemporaneità inverosimile, rispetto al nostro oggi che è distante da lui cinquant’anni. Questa è la grande genialità di Dalì. Dopo di lui tutti hanno capito, il primo Andy Warhol, che ognuno di noi avrebbe avuto i suoi tre minuti di popolarità. Tanto è vero che al primo piano di questa mostra che abbiamo allestito nel Castello Ursino c’è un video di Andy Warhol screen test”.
Dalì com’era in privato?
“La mostra parla anche di questo, nella sezione dedicata alle riviste e alle copertine, che lui è riuscito a ottenere negli anni, lì c’è una piccola sezione dedicata al Dalì intimo e privato. Ciò che spesso non emerge è che lui era un lavoratore infaticabile e coltissimo, ma si può ammirare nei disegni. Ce n’è uno di Gala, la sua musa, col turbante che è di una bellezza disarmante”.
Ci sono dei quadri streboscopici, cosa sono e come devono essere guardati?
“Dopo aver costruito il suo personaggio a Dalì mancava giusto l’immortalità. La cerca prima nella religione, ma viene colpito anche dalla scienza e dalla bomba atomica che ritroviamo spesso nelle sue opere sotto forma di frammenti. Lui cerca di arrivare alla terza dimensione, poi alla quarta tramite la religione. Quando si accorge di non riuscirci ci prova con la scienza. La stereoscopia nasce negli Anni Settanta per riuscire a rendere una figura piatta in tre dimensioni. E lo realizza disegnando due opere simili, ma non uguali, e poi le inclina inserendo tra le due degli specchi. Nella mostra questo viene riprodotto con quegli occhiali che si trovano lungo il percorso. Ecco, lì c’è molto di Dalì e di Gala, la sua musa, che ritroviamo in ogni sua opera.
“Ma Dalì è anche scrittore e la sua ossessione per l’immortalità lo spinge a pubblicarne uno in cui propone le ricette per l’immortalità. Ricette astruse che nessuno ha potuto mai realizzare. Ma Dalì capisce che riesce a rendersi immortale tramite la sua opera. E alla fine lui la ricetta la realizza nella costruzione del Teatro-Museo Dalì che costruisce a Figueres, la città in cui nasce, e lo fa a sua immagine e somiglianza. È questo il suo autoritratto conclusivo che cammina in coppia con l’autoritratto degli Anni Venti di Raffaello”.
Sembra che Dalì abbia saputo scegliere anche scelto il momento giusto per nascere…
“Sicuramente sì. Il consiglio è quello di vedere questa mostra con calma, gustandosi ogni angolo”.
La mostra è frutto di una collaborazione tra il Comune di Catania e la Fundació Gala-Salvador Dalí nella persona di Montse Aguer, direttrice dei Musei Dalí. L’esposizione è curata da Laura Bartolomé, Lucia Moni per la Fundació Gala-Salvador Dalí e da Francesca Villanti direttore scientifico di C.O.R. Creare Organizzare Realizzare, con la consulenza scientifica di Montse Aguer e di Rosa Maria Maurell.
“Io, Dalì” rimarrà allestita al Castello Ursino di Catania fino al 10 febbraio 2019. Il biglietto costa 12 euro (ridotto 9, ma ci sono diverse possibilità che troverete al botteghino), gli orari di apertura sono 9-19 ogni giorno, il botteghino chiude un’ora prima.
Monica Adorno