Premetto che non ho alcuna simpatia per Vittorio Feltri. Non mi piace lo stile da guitto con il quale interpreta il suo nuovo ruolo di showman, a discapito di quello di giornalista.
Non mi piace il suo modo di vestire da falso gentleman di campagna, in realtà da vero Dandy di provincia che, nella puntuale declinazione del “dandismo”, disprezza la massa e rifiuta qualunque principio ugualitario.
Non mi piace il suo bofonchiare alla francese.
Non mi piace il tanto ricorrente, quanto inutile, ricorso al turpiloquio che, da lui usato non è mai rafforzativo, nelle sue espressioni, ancorché “sdoganate”, ma solo volgare ed oltraggioso per chi lo sta a sentire.
Non mi piace che si dica che è esilarante e fa ridere, perché, ricordo a me stesso, che “risus abundat in ore stultorum”.
Non mi è piaciuto l’oltraggio verbale rivolto a tutti i meridionali, probabilmente frutto del suo non essere sempre “compos sui”, e certamente non proferito per compiacere un uditorio anti meridionale, che non trova più posto sul carroccio &co post bossiano.
Tutto ciò premesso, e premesso ulteriormente che, se lo incontrassi, dopo avergli illustrato il codice cavalleresco ed il bon ton, lo schiaffeggerei in pubblico invitandolo a ritrattare e a scusarsi per le parole usate, tuttavia devo dire che, in ciò che ha detto c’è un fondo di verità.
Per comprendere come abbia potuto così clamorosamente farla fuori dal vasino occorre riflettere su almeno due passaggi:
Chi è “inferiore”?
Colui il quale, per scelta, o per impossibilità di scelta, è sottomesso ad altri.
Senza andare a disturbare poeti e letterati risorgimentali, basta tornare con la memoria alla favola di Fedro, il lupo e l’agnello.
Come esordisce Fedro? “Superior stabat lupus longeque inferior agnus”.
Il lupo non stava più in alto solo per posizione lungo il torrente, ma perché posizionato due gradini più in alto nella scala alimentare; capace cioè di nutrirsi di erbivori e di altri carnivori, quasi un predatore; e all’agnello non era, e non è, dato scegliere.
Nella nostra storia di meridionali e, segnatamente di Siciliani, non abbiamo avuto possibilità di scegliere se e come passare da inferiori, cioè sottomessi e depredati, a superiori, cioè, non solo padroni di noi stessi, ma anche dei nostri destini e della possibilità di incidere sulle linee di indirizzo della Nazione, almeno per quanto riguarda la nostra terra.
Tuttora, anche nella gravissima situazione che stiamo vivendo, quel poco o tanto che siamo riusciti a fare, l’abbiamo fatto da soli.
Penso alle mascherine comprate in Cina, perché ancora stiamo aspettando quelle della Protezione Civile Nazionale.
Penso all’aver dovuto utilizzare il corpo forestale della Regione Siciliana per presidiare lo sbarco dei traghetti a Messina;
Penso alle dichiarazioni “da ventennio “ del Prof Conte che, al nostro Presidente MUSUMECI, che reclamava il diritto di usare i poteri e le funzioni previsti dal nostro Statuto in materia di ordine pubblico, replicava che ci avrebbe conquistato con ogni mezzo “ di cielo, di terra e di mare”.
Penso al denegato diritto di proteggere il nostro territorio e di graduare la ripresa delle attività.
Penso all’oltraggioso sarcasmo col quale il prof Conte ha liquidato l’avvio della procedura costituzionale per l’attuazione dello Statuto in materia di ordine pubblico, riducendola all’apprezzamento dello stile garbato di Musumeci;
Penso alle dispute mortificanti ogni qual volta nel dover chiedere “il nostro“ allo Stato, ci ritroviamo a mendicare con la coppola in mano.
Abbiamo avuto la nostra unica opportunità 74 anni fa e abbiamo rinunciato alla nostra indipendenza, ormai cosa fatta, sperando che l’autonomia del nostro Statuto speciale, venisse salvaguardata dai nostri rappresentanti e rispettata dagli Organi centrali dello Stato.
Ne’ l’una ne’ l’altra aspettativa si è realizzata.
Abbiamo abdicato ai nostri diritti e ci siamo, noi stessi, fatti sudditi.
I proverbi antichi non sbagliano mai, ed in Sicilia si dice che: “Chi pecora si fa il lupo se la mangia”.
Certamente Feltri ha sbagliato nella forma e non nella sostanza, perché, seppure “non omne verum est dicendum”, sempre di verum, cioè di verità stiamo parlando.
Alfio Franco Vinci