All’ombra d’una incantevole luna piena e accolto dalle millenarie colonne, il numeroso e festante pubblico che l’altra sera ornava gli spalti e le poltrone del Teatro greco di Taormina ha assistito alla rappresentazione de Lu Sànto Jullare Françesco scritto e interpretato da Dario Fo.
È stata l’unica data prevista nella tournée 2014 in Sicilia ed è stata ospitata nell’ambito del Festival Belliniano curato dall’intraprendente regista e scenografo Enrico Castiglione.
Uno straordinario Dario Fo ha dato prova di una vitalità non comune – se si pensa ai suoi 88 anni e mezzo – ed ha narrato, con una levità che solo a lui appartiene, le vicende di Francesco d’Assisi ripercorrendone alcuni dei momenti più significativi, fra noti e meno noti, di uno che “cantava” alla maniera dei giullari del suo tempo Cristo e l’amore che Egli aveva per l’Umanità e il Creato; e che era ben lontano dall’immagine ieratica che la tradizione cattolica ha tramandato. Un Francesco ribelle e sanguigno quanto docile e scaltro.
“Molto di quello che noi sappiamo di lui non è la verità – ci dice il maestro in conferenza stampa – Francesco era un uomo che viveva la rivolta della sua città, la lotta contro le prevaricazioni e tutto questo è sparito. Nella versione presente (la prima risale a quindici anni fa, nda) ho voluto parlare anche del Francesco di oggi: il Papa gesuita (…) al quale tutti, cattolici e no, guardiamo con speranza per la trasformazione in meglio di questo mondo. Nello spettacolo – e fuori da esso, continua il maestro – difendo Papa Bergoglio dai tanti che lo criticano e in primo luogo da quelli che si dicono di sinistra e che lo accusano di parlar tanto e di far poco. A costoro dico che è soprattutto con le parole che si comincia a cambiar le cose; pensate a Marx e a quel che è venuto dopo… non oso dire pensate a Renzi e ai guai che sta per fare dopo aver detto, e tanto a sproposito!”.
Lo spettacolo – due ore di monologo in due tempi – ha rispettato alla lettera i propositi del maestro ed è stato un“doppio” spettacolo. Da un lato le storie dello Jullàre Françesco riviste con altri occhi e rivelate nel loro vero significato a un pubblico divertito e costretto a pensare; e dall’altro il Gigante Dario Fo, la sua sconfinata bravura in ogni aspetto dell’agire di attore/autore/regista. Una per tutte: l’uso della voce. Usata come il docile strumento a cui l’artigiano chiede di fare anche le cose per cui non è nato e invece si trova a farle perché nulla resiste all’abilità di chi sa. Non sembri una nota peregrina. Il Maestro Fo ha quasi novant’anni e non salta e zompa, né può far le capriole che ammirammo un tempo: per quasi metà dello spettacolo sta seduto e beve un beverone ristoratore fatto di chinotto e propoli e s’alza e cammina, ora a destra ora a sinistra del palcoscenico.
Il movimento dello spettacolo è dato tutto dalla mimica magistrale delle mani e del tronco e dalla meravigliosa orchestra che tiene in gola fino all’incredibile esteso emozionante acuto con cui finisce lo spettacolo. Struccato, immerso in un ampio berretto e in una vistosa sciarpa rosa, ci è dato d’accompagnarlo dai camerini lungo la discesa che dal teatro greco porta a Palazzo Corvaia. C’è tempo per una domanda personale: c’è stato qualche Presidente della Repubblica che le ha proposto la nomina a senatore a vita? “Nessuno”, dice. “È un’infamia per lo stato Italiano” ribatte una giovane. “Avrei rifiutato – conclude – e Franca sarebbe d’accordo con me”.
Rifiuta il taxi, a metà strada concede di salire su un’auto dei vigili urbani che lo porta in albergo. “Salute a ognuno e allegrezza a tutti” pare dire salutando, come lu Santo Jullàre.
Matteo Licari